Vitamina D e la sua importanza clinica: quando e come integrare!
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Avete mai testato la concentrazione di vitamina D nel sangue? L’analisi viene svolta con sempre maggiore frequenza in seguito all’osservazione di una ipovitaminosi nel 60-70% della popolazione italiana. In questo articolo capiremo l’importanza della vitamina D, la sua azione, le modalità di assunzione tramite l’alimentazione e quando è consigliato integrarla.

In primo luogo è importante sottolineare come la vitamina D seppur definita vitamina svolga un ruolo *ormonale* nel nostro organismo, difatti è coinvolta nell’assorbimento e fissazione del calcio, di primaria importanza soprattutto nel periodo post-menopausale, nella trascrizione genetica, nella regolazione della crescita cellulare tra cui quella tumorale, nella modulazione del sistema immunitario, nonché della funzionalità tiroidea, etc. Adesso capite perché è così importante valutare il proprio livello sierico di vitamina D ed eventualmente correggerlo!

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Avendo un’attività biologica così ampia il nostro organismo ha sviluppato un meccanismo di produzione endogena, che rappresenta i 4/5 della produzione totale. La sintesi endogena si ottiene in seguito all’esposizione solare, attraverso la quale a partire da un precursore derivante dal colesterolo si ottiene la vit. D3 (colecalciferolo, ). La vit. D3 può essere assunta anche attraverso alimenti di origine animale come il pesce (soprattutto quello grasso come il salmone), latte (ma solamente non pastorizzato) e latticini come il formaggio (prodotto a partire da latte crudo), più avanti mi soffermerò sul ruolo delle fonti alimentari di vit. D. Alcuni alimenti vegetali invece forniscono vit. D2, che tuttavia è molto meno biologicamente attiva. La vit. D essendo di natura lipofila, può essere accumulata all’interno del nostro corpo nel tessuto adiposo e liberata gradualmente nel tempo. Questa caratteristica espone le persone sovrappeso o obese ad un maggior rischio di carenza poiché la quantità di tessuto adiposo a disposizione è maggiore a discapito della quantità di vit. D libera nel sangue. La natura lipofila della vit. D è sfruttata anche nei protocolli di integrazione, difatti spesso si somministrano dosaggi massicci di vit. D con frequenza diradata sfruttando la capacità del corpo di accumularla e rilasciarla a mano a mano nel sangue. A mio parere dosaggi elevati sono indicati qualora si parta da una concentrazione molto bassa di vit. D e si abbia la necessità di elevarla rapidamente, negli altri casi sarebbe preferibile utilizzare dosaggi ridotti ma più frequenti (ad esempio settimanali se non giornalieri). Il problema che potrebbe sorgere deriva proprio della natura lipofila della vit. D, che accumulandosi nel tessuto adiposo potrebbe risultare tossica. Affinché la vit. D svolga la sua funzione biologica deve essere trasformata due volte all’interno del nostro organismo, e questo avviene a livello del fegato e del rene. Dopo la conversione a livello epatico si attiene la 25-idrossi-vitamina D (25-OH-vit. D), che rappresenta un indicatore affidabile dei depositi di vitamina nel corpo. Questo metabolita viene a sua volta convertito nell’1-25-idrossi-vitamina-D (1-25-OH-vit. D o calcitrioolo) a livello renale, ottenendo così la forma attiva.

Quale analisi permette di valutare i propri livelli di vit. D? Attraverso una semplice analisi del sangue, ricercando nello specifico la concentrazione di 25-OH-vit.D è possibile avere una stima attendibile. Questa analisi, ormai effettuata nella maggior parte dei laboratori ha dei range di riferimento che possono variare da laboratorio a laboratorio, tuttavia possiamo prendere i seguenti valori di riferimento:

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Valori ottimali di vit. D si attestano tra il 75 e il 100 nmol/L, parametro individuato osservando la relazione tra i livelli di 25-OH-vit.D e svariati parametri clinici tra cui valori di densità minerale ossea, propensione a cadere, incidenza di fratture, eventi cardiovascolari, neoplasie (specie colon, mammella e prostata), sindrome depressiva, diabete, sclerosi multipla e numerose altre condizioni morbose. Proprio per la rilevanza della relazione osservata tra la concentrazione di vit. D e le suddette condizioni patologiche è importante non soltanto avere sufficienti concentrazioni di vit. D nel sangue ma avere dei valori ottimali.

Quali sono le cause della carenza di vit. D? Abbiamo già accennato come l’alimentazione possa influenzare la concentrazione di vitamina D solamente per un 20%, tuttavia regimi alimentari totalmente privi di alimenti di origine animale (veganesimo) possono esacerbare questa situazione. Viceversa  assicurarsi un’adeguata quota di pesce, uova o latticini può contribuire a migliorare la concentrazione plasmatica. Anche in questo caso tuttavia ci sono delle specifiche da evidenziare, difatti nel latte il processo di pastorizzazione degrada la vitamina D e tutte le tipologie di latte che si trovano in commercio subiscono un processo di pastorizzazione, se non processi che prevedono temperature ancora maggiori per garantire un adeguato livello igienico sanitario. Lo stesso vale per i derivati del latte (yogurt, panna, formaggi, etc) eccetto per i formaggi prodotti a partire da latte crudo, che riportano questa caratteristica in etichetta. Capite bene come quindi l’effettivo contributo dell’alimentazione nell’apporto di vitamina D sia esiguo. E per quanto riguarda la produzione attraverso l’esposizione solare? In questo caso la sintesi avviene solamente in seguito all’esposizione della cute a raggi ultravioletti di specifica lunghezza d’onda (UVB tra 290 e 315 nm). La presenza di queste radiazioni vi è per un numero limitato di ore nella giornata che varia in relazione alla stagione e alla latitudine. Per questo in Italia la produzione di vit. D legata all’esposizione solare è trascurabile nei mesi invernali. Inoltre altri fattori condizionano la sintesi vitaminica, tra di essi l’età, la superficie e lo spessore della cute esposta al sole, il tempo di irradiazione nonché l’uso di creme protettive che possono ridurre fino al 97% la sintesi cutanea di vit. D. Se ne deduce che la nostra maggiore esposizione sia durante il periodo estivo ma l’utilizzo di protezioni solari di vario tipo ne riduca la sintesi, esponendoci a carenze.

Ci sono poi una serie di condizioni cliniche che interferiscono con il metabolismo della vit. D. Alcune sono abbastanza ovvie come l’insufficienza renale cronica e l’insufficienza epatica, visto che il rene e il fegato sono due sedi di conversione nella forma attiva, altre ne limitano l’assorbimento come fibrosi cistica, morbo di Crohn, intervento di by-pass gastro-intestinale. L’obesità rende la vit. D poco disponibile per il sequestro nel tessuto adiposo. Alcune condizioni e/0 farmaci ne aumentano il consumo come la gravidanza, l’allattamento e l’uso di glucocorticoidi. In tutti i casi citati bisogna avere un’accortezza in più e valutare sempre la concentrazione sierica di vit. D per poterla correggere.

Quali possono essere le conseguenze di un’ipovitaminosi D? Quando i valori si attestano al di sotto dei 40-50 nmol/l si osservano rachitismo e osteomalacia, ovvero difetto di ossificazione rispettivamente in età pediatrica e adulta e aumentato rischio di frattura. In Italia quanto è frequente la carenza di vit. D? Come abbiamo detto all’inizio dell’articolo la percentuale è del 60-70%, ma in alcune fasce di età si arriva fino all’86% come nelle donne ultrasettantenni, con punte minime di vit. D al di sotto dei 10 ng/ml alla fine della stagione invernale.

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Quali sono i dosaggi di vit. D da integrare suggeriti?

Vari trial eseguiti negli anni hanno evidenziato come nell’adulto una supplementazione di vit. D pari 2000 UI al giorno sia ragionevole. Questo valore naturalmente deve essere modulato in base ad età, massa grassa e apporto di calcio. L’assunzione di 2000 UI garantisce la soglia minima di 20 nmol/l anche in persone poco esposte alla radiazione solare.

 

Bibliografia:

Adami S. et al, Linee guida su prevenzione e trattamento dell’ipovitaminosi D con colecalciferolo, 2011, Reumatismo.

#Educational14 novembre 2018